skip to main | skip to sidebar

Collettivo NOSMET Firenze

Collettivo della Facoltà di Scienze della Formazione di Firenze attivo dal 1991. Nasce dal movimento della pantera e si pone oggi come unica forza politica all'interno di questa Facoltà, che si richiama a valori e principi di sinistra

domenica 7 marzo 2010

Aperitivo

Pubblicato da Collettivo Nosmet alle domenica, marzo 07, 2010

Nessun commento:

Posta un commento

Post più recente Post più vecchio Home page
Iscriviti a: Commenti sul post (Atom)

Link utili

  • studenti di sinistra
  • collettivo di Psicologia
  • http://www.sestograd.org
  • http://no133.wordpress.com/

Informazioni personali

Collettivo Nosmet
Le idee a cui restiamo fedeli e che cerchiamo di affermare anche negli Organi di autogoverno dell'università sono quelle di una maggior democrazia nei Consigli di Facoltà e nei Consigli di Corso di Laurea, una valorizzazione maggiore dei contenuti culturali degli insegnamenti, un controllo più efficace sulla didattica e inanzitutto una Facoltà in cui tutti hanno gli stessi diritti; sosteniamo che il pieno diritto allo studio per tutti è ancora oggi una garanzia costituzioinale e inalienabile, anchese spesso disattesa
Visualizza il mio profilo completo

Altri gruppi universitari

  • Associazione Frammenti e trame
  • Collettivo Universitario Autonomo di Bologna
  • Lo Scomodo
  • Car Pisa
  • Studenti di Sinistra
  • Controcorrente

Cena del primo maggio

foto della cena del 1 maggio nella facoltà occupata di scienze della formazione con i ragazzi del coordinamento

Archivio blog

  • ►  2011 (1)
    • ►  dicembre (1)
  • ▼  2010 (12)
    • ►  dicembre (3)
    • ►  novembre (1)
    • ►  ottobre (1)
    • ►  luglio (1)
    • ►  maggio (2)
    • ▼  marzo (3)
      • Mediateca
      • Aperitivo
      • Contro il decreto salva liste fatto dal governo, u...
    • ►  febbraio (1)
  • ►  2009 (8)
    • ►  settembre (1)
    • ►  marzo (4)
    • ►  febbraio (2)
    • ►  gennaio (1)
  • ►  2008 (40)
    • ►  dicembre (8)
    • ►  novembre (5)
    • ►  ottobre (14)
    • ►  settembre (1)
    • ►  luglio (3)
    • ►  giugno (2)
    • ►  maggio (4)
    • ►  febbraio (1)
    • ►  gennaio (2)
 

PROPOSTA DI RIFORMA 20.11.2008

Riflessioni e proposte dell’Assemblea degli Studenti della Facoltà di Scienze della Formazione di Firenze per un rinnovamento della scuola

L’Assemblea degli Studenti della Facoltà di Scienze della Formazione, durante lo stato di Occupazione della Facoltà, in vigore dal 20/10/2008, visti i tagli e la riforma promosse dal Ministro Gelmini e dal Ministro Tremonti, ha iniziato una sua riflessione sui temi della scuola e della Formazione. I punti di riflessione emersi sono i seguenti.



…bisogna cercare come mai i barbari abbiano vinto…
E. Garin


…Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico!
Quest’ultimo è il metodo più pericoloso…
P. Calamandrei


…non si lesina quando si tratta di aumentare la razione di pane ai maestri…
V. Lenin




Dalla Costituzione italiana

Art. 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 4.
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Art. 9.
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Art. 33.
L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale.
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.
Art. 34.
La scuola è aperta a tutti.
L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Il primo aspetto in relazione ai luoghi della formazione dell’uomo è da ritrovarsi nei dettami Costituzionali.
In particolare all’art. 3 si evidenzia l’uguaglianza sostanziale di ogni individuo. Questo aspetto, oltre a richiamare una giustizia equa per tutti, sottolinea come tutti i soggetti abbiano il diritto di ricevere dallo Stato eguali opportunità, evidentemente anche in ambito formativo. È pertanto impensabile che esitano nella scuola italiana percorsi differenziati per chi proviene da culture diverse, e percorsi formativi che non garantiscono a tutti gli stessi strumenti per poter interpretare la società Per farlo è incostituzionale che vi siano percorsi di studio che eliminano la cultura generale in favore di un mero addestramento.
Dall’art. 4 possiamo evidenziare che ogni cittadino ha il diritto di formarsi in un ambito disciplinare attraverso il quale egli ritiene di poter apportare un contributo alla società. È evidente che per fare ciò è indispensabile il mantenimento di un’ampia offerta formativa e di una rete di istituti e scuole diffuse su tutto il territorio, condizione che ad oggi viene regolata dalla riduzione prevista dalle norme del governo.
In relazione all’art. 9 non si può fare a meno di registrare che l’Italia è il paese che meno promuove e investe sulla ricerca, come visibile dalla fuga dei cervelli e dalla mancanza di strumenti nelle strutture pubbliche universitarie e degli enti di ricerca. Gli ultimi interventi ridimensionano ulteriormente il fondo per la ricerca, motivando tale intervento con la necessità di intaccare il baronato universitario. È tuttavia evidente che il problema del baronato non ha nulla a che vedere con la promozione della ricerca e di nuovi ricercatori. Ci vogliono leggi per intaccare i poteri accademici, ma non diminuire i finanziamenti, altrimenti gli unici ad essere penalizzati saranno proprio la ricerca e i giovani ricercatori, che per Costituzione dovrebbero essere sostenuti ed incentivati.
Sull’art. 33 dobbiamo registrare due aspetti: il primo è che se la cultura e la ricerca devono essere liberi e libero il loro insegnamento questo non può essere assoggettato ad interessi privati che necessariamente verranno fuori se a loro sarà affidato il finanziamento, e quindi la sopravvivenza, delle strutture scolastiche e universitarie, così come gli enti di ricerca. In questo quadro le Fondazioni sono anticostituzionali. Il secondo aspetto riguarda l’ordinamento autonomo che le istituzioni educative e universitarie possono darsi. È da registrare su questo punto che vi è un equivoco, l’autonomia sancita dalla Costituzione è relativa al potere politico dello Stato e non stabilisce di per sé un’aziendalizzazione o un’anarchia gestionale delle strutture affidate a Rettori e Presidi-Manager, i quali divengono sovrani assoluti di strutture che invece sono di proprietà ed opportunità per e di tutti i cittadini.
Infine all’art. 34 si ribadisce la questione del diritto allo studio, ad oggi ancora completamente elusa nelle principali realtà. Una borsa di studio di 2.000 € annue non può essere elemento che garantisce il diritto allo studio perché non risponde alle esigenze materiali di uno studente nella società attuale sia in relazione ai costi, sia alle diverse condizioni di partenza dei soggetti. La stessa competitività tra istituti e università non garantisce l’equità della formazione che invece per Costituzione deve essere uguale per tutti. È opportuno riconoscere lo stato giuridico di uno studente come soggetto che apporta un valore a tutta la società e pertanto gli deve essere riconosciuto un pieno sostegno economico.

La scuola ha il compito di educare e formare il buon cittadino. Il buon cittadino è colui che vede la persona altra, con la sua storia, le sue emozioni, il suo pensiero, le sue particolarità e la rispetta. Il miglior modo per arrivare a questo tipo di pensiero è quello di conoscersi. Il compito della scuola è quello di aiutare il ragazzo a capirsi. Al centro dell’attività scolastica ci deve essere l’alunno come persona, non soltanto il programma didattico. Lo Stato deve delegare l’educazione alle emozioni anche alla scuola, in quanto l’alunno cittadino formato alla centralità dell’individuo nella società, porterà beneficio ad essa. Per portare avanti questo progetto, nella classe ci deve essere un clima di rispetto, con cui l’alunno potrà esprimere con sincerità e tranquillità il suo pensiero e il suo stato d’animo. Questo sarà il mezzo per capire l’importanza dell’altro e quindi il fondamentale rispetto per l’individuo.

Alcuni autori della pedagogia contemporanea ci ricordano che la scuola dovrebbe essere un luogo di socializzazione e di vita comunitaria e non solo un luogo di trasmissione delle informazioni. Lo studente non deve essere considerato un contenitore vuoto da riempire, ma deve essere messo nella condizione di diventare un membro attivo della sua educazione e della sua formazione. Lo Stato ha l’obbligo morale e Costituzionale di fornire i mezzi affinché ogni persona, partendo dalle sue condizioni iniziali ( siano queste economiche, sociali, culturali e/o psicofisiche ) possa trovare nell’istituzione scolastica i modi e gli strumenti per sviluppare le proprie attitudini e in questo modo contribuire attivamente al progresso della società.
È innegabile il collegamento tra scuola e società ( richiamato spesso da Dewey ) in quanto il carattere sociale permea tutto l’universo scolastico, sia nelle finalità ( la scuola deve favorire la partecipazione sociale ), sia nei contenuti (la scuola deve insegnare ciò che utile per vivere nella società) ed infine nell’organizzazione (la scuola deve essere concepita come una riproduzione in scala ridotta della società) in quanto è nella scuola che si forma il futuro cittadino.

L’eterogeneità delle tipologie d’utenza che accedono e richiedono l’accesso a servizi formativi, necessita di una capacità amministrativa da parte dei dirigenti in grado di garantire la qualità formativa, che si dovrebbe articolare in 4 punti:

1- modulabilità dell’offerta formativa in relazione alle caratteristiche particolari delle zone (aree territoriali contigue che coordinandosi possono garantire quantità e qualità del servizio, come già avviene in alcuni settori)
2- Autonomia gestionale da parte degli istituti sia per quando riguarda la didattica curricolare sia per quanto riguarda i progetti o i moduli integrativi siano essi di natura pubblica o privata.
3- Formazione specifica dei dirigenti delle istituzioni educative basata su due punti
- Politiche amministrative creative e inquadrate in profilo tributario ad hoc, finalizzate ad ampliare e migliorare l’offerta formativa.
- Competenze pedagogiche ed educative consolidate e continuamente
aggiornate.
4- Garanzie da parte dello Stato affinche il funzionamento degli istituti non sia in nessun modo subordinato agli andamenti economici del territorio locale, nazionale o internazionale.

Il voto numerico è solo un elemento astratto che non permette all’individuo di assumere consapevolezza delle proprie capacità, competenze e conoscenze; per questo motivo rischia di rimanere fine a se stesso, in quanto il “viaggio scolastico” non è più motivo di piacere o curiosità, ma diventa solo una scalata al raggiungimento del numero più alto.Esprimendo, invece, la valutazione in giudizi abbiamo dei punti chiave da migliorare e perfezionare, perché esplica le debolezze e i pregi dei singoli individui, spronando all’autovalutazione e alla partecipazione attiva della propria formazione. Questo è quanto più vero nella scuola di base, in cui il decreto Gelmini ripropone il voto numerico; tuttavia riteniamo che il voto numerico vada eliminato da tutti gli ordini e gradi di scuola, sia di I che di II grado.

Al fine di garantire un insegnamento qualitativamente dignitoso, riteniamo che non solo venga valutato l’apprendimento degli studenti, ma anche altri 3 punti fondamentali:

1. l’effettiva conoscenza scientifico disciplinare del docente
2. l’effettiva attitudine all’insegnamento, quindi la capacità di trasmettere tali conoscenze
3. l’effettiva capacità del docente di lavorare in team, la sua capacità di integrare il proprio ambito scientifico – disciplinare con altri, al fine di dare agli studenti una più ampia conoscenza degli argomenti trattati e una maggiore capacità di riflessione e analisi trasversale delle cose

Questa valutazione dovrà essere effettuata attraverso un incrocio di verifiche.
∑ La prima, dovrà essere una verifica sugli studenti stessi, su quanto hanno effettivamente appreso.
∑ La seconda, sulle conoscenze del docente, attraverso verifiche annuali per verificarne l’aggiornamento.
∑ La terza, attraverso verifiche del team di insegnamento, appurando la loro capacità di cooperazione e di costruzione di “lezioni incrociate”.
∑ La quarta, una verifica da parte degli studenti, consultiva, al fine di avere anche un parere da chi, effettivamente, vive su di sé la figura del docente.

Queste verifiche incrociate permetteranno di avere una chiara visione di tutta l’effettiva competenza del docente, alzando gli standard della didattica. Di conseguenza, si alzerà la qualità dell’apprendimento, riuscendo così a formare soggetti che avranno tutti gli strumenti necessari per affrontare qualunque sfida.

Inoltre, questo tipo di valutazione andrà applicato in ogni ordine e grado dell’Istruzione, dalla scuola dell’infanzia fino all’università, garantendo così un’ istruzione di alto livello dalla scuola dell’obbligo fino all’istruzione di eccellenza.





Scuola di Base

Maestro Unico ( didattica modulare )

La figura del maestro italiano si delinea, nella sua evoluzione sociale e culturale tra l’Unità d’Italia e l’avvento del Fascismo, attraverso la lettura delle leggi dedicate all’istruzione elementare promulgate in quegli anni: la Legge Casati del 1859, la Legge Coppino del 1877 e la Legge Daneo-Credaro del 1911.
Fino al 1923, a preparare i maestri e le maestre in scuole istituzionalmente separate per sesso, ha provveduto la Scuola Normale maschile e femminile, istituita dalla Legge Casati nel 1859 (legge per il solo regno sabaudo e la Lombardia e poi estesa dopo l'Unita' a livello nazionale). Si trattava di una scuola triennale, cui si poteva accedere, previo esame di ammissione, a 15 anni per le ragazze e a 16 per i ragazzi, anche in assenza di un corso continuativo di studi fra la scuola elementare (obbligatoria fino a otto anni) e la stessa Normale. Questa atipicità d'accesso già denuncia il tenore culturale della Scuola Normale e il ruolo formativo ascrittole dall'allora classe dirigente.

Nel 1877 l’articolo 13 della Legge Coppino previde la nascita della Scuole Magistrali rurali, di durata biennale. Queste scuole rilasciavano solo la patente di grado inferiore ed avevano come principale finalità quella di “fornire ai maestri l’istruzione necessaria a dare con profitto nelle scuole elementari obbligatorie l’insegnamento”.
La Legge Daneo-Credaro aveva nel 1911 nuovamente impegnato il governo a presentare entro sei mesi dalla sua pubblicazione un disegno di legge di riforma delle scuole normali. Il ministro Credaro, dopo aver dato priorità all’avvio della nuova organizzazione amministrativa statale elementare, nel novembre 1913 incaricò un’apposita commissione di studiare e di presentare le opportune proposte.

Con la Riforma Gentile del 1923 la prospettiva umanistica ed intellettualistica prevalse nettamente senza nulla concedere, nonostante numerose critiche e riserve anche da parte idealista, alle esigenze di una più concreta e realistica professionalità del maestro elementare.

Questa la linea storica dell’evoluzione legale della figura del maestro. Con l’attuale Riforma Gelmini, il passo indietro è enorme. A prescindere dai presunti vantaggi pedagogici che la reintroduzione del Maestro Unico,tanto citati dal gruppo di pedagogisti alle spalle del Ministro (ci chiediamo chi essi siano, per evitare di prendere lezioni da loro ), come ad esempio il risparmio sulle figure docenti eccetera, noi rispondiamo:


Gelmini Studenti
È meglio per un bambino avere una sola figura di riferimento. Sbagliato. La psicologia (Piaget in primis) ci insegna che tra i 6 e gli 8 anni è fondamentale moltiplicare le figure di riferimento per la formazione di una personalità autonoma e sicura. Il maestro unico è poi sintomatico di uniformità, i bambini imparano che esiste una sola figura, un unico capo, la visione di un unico modo di pensare che il maestro trasmette. Tutto questo non riguarda solo la sfera connessa all’apprendimento ma anche quella emotiva ed affettiva.
Mantenimento del tempo pieno È vero. Ma…
Art. 4. legge 169/2008
1. Nell'ambito degli obiettivi di contenimento di cui all'articolo 64 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nei regolamenti di cui al relativo comma 4 e' ulteriormente previsto che le istituzioni scolastiche costituiscono classi affidate ad un unico insegnante e funzionanti con orario di ventiquattro ore settimanali. Nei regolamenti si tiene comunque conto delle esigenze, correlate alla domanda delle famiglie, di una più ampia articolazione del tempo-scuola.
2. Con apposita sequenza contrattuale e a valere sulle risorse di cui all'articolo 64, comma 9, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e' definito il trattamento economico dovuto per le ore di insegnamento aggiuntive rispetto all'orario d'obbligo di insegnamento stabilito dalle vigenti disposizioni contrattuali.
Questo significa che sì il tempo pieno verrà mantenuto, ma di fatto solamente per quelle famiglie che avranno la possibilità economica per pagare gli istituti.
Le classi ponte favoriscono l’integrazione dei bambini stranieri Sbagliato. Come si può pensare che un bambino che non parla bene l’italiano, che ha una cultura diversa da quella italiana, si possa integrare frequentando una classe in cui sono presenti tantissime culture diverse tra loro e in cui manca proprio quella italiana?
Come si può pensare che un bambino si integri se non sta a contatto con gli altri ma viene relegato in un ghetto culturale?
Come possono tanti bambini che non parlano bene l’italiano impararlo parlando solo tra di loro?
Accorpamento degli istituti con meno di 500 studenti e chiusura dei plessi fino a 50 alunni Partiamo dalle problematiche di base: poniamo il caso che la piccola scuola di montagna venga chiusa. La più vicina è a 20 km. I genitori lavorano entrambi. Non ci sono servizi di trasporto scolastico. Come farà il bambino a frequentare normalmente le lezioni?
Non rimmarrà che affidarsi ad istituti privati con ulteriori aggravi per i cittadini.
Reintroduzione del libro di testo unico Qui si torna indietro fino alla riforma Gentile, poi modificata e ripresa dalla Riforma Moratti. Questa non è una soluzione per gli sprechi sui libri. È un vero e proprio attacco alla cultura e alla libertà di insegnamento, dato che il libro di testo unico non permette l’integrazione con altri testi. Si rischia un monopolio culturale improprio di una scuola di base tra le migliori 5 al mondo.
Il libro di testo unico alla cultura in generale: alla storia, che rischia di essere stravolta secondo un solo canone di pensiero politico, alla scienza, che rischia di essere dirottata su un binario per far acquisire competenze esclusive e non generaliste, è un attacco deliberato alla libertà di pensiero.


Andare oltre il modello gentiliano nella Scuola Secondaria


La scuola media ad oggi è in sostanza ancora quella disegnata da Gentile nel ’23; gli interventi che si sono susseguiti negli anni della Repubblica hanno introdotto delle novità, ma senza riformare realmente l’istruzione superiore. La stessa introduzione della media unica nel ’62 non ha comportato un’ effettiva revisione dei programmi,ma si è limitata per lo più ad estendere il modello del triennio del ginnasio a tutti con qualche sconto su alcune discipline come l’insegnamento del latino. Gli stessi programmi del ’79 rimangono ad oggi una dichiarazione di intenti che non trova una corrispondenza pratica. Ad oggi, gli interventi proposti dal ministro Gelmini sono da considerarsi come mezzo esclusivo per impoverire ulteriormente la scuola.
Le norme del Governo prevedono la riduzione del tempo prolungato nella secondaria di I grado (dove il tempo normale scende a 29 ore invece delle 32-33 ore attuali) fino alla riduzione generalizzata del quadro orario di tutti gli indirizzi delle secondarie di II grado (con accorpamenti di classi di concorso e discipline che spariranno o che verranno ridotte nell’orario). A questo si somma il generale innalzamento del rapporto alunni classe. Ciò significa diminuire il tempo scuola dedicato alla cultura, ai laboratori, alle discipline. Si ha così una maggiore selezione e dispersione scolastica per i più deboli, un attacco alla qualità della scuola e della vita delle persone. Tutti interventi, in sostanza, che vanno a pesare in negativo su una scuola che ancora non è ai livelli dei modelli europei più avanzati. Ben altri, a nostro avviso sarebbero dovuti essere i provvedimenti.

Un nuovo tempo scuola per un diverso modello formativo

A nostro avviso non solo non si sarebbe dovuto ridurre il tempo prolungato nella scuola media, anzi si sarebbe dovuto creare un sistema dove tutta la scuola media inferiore e superiore si fondasse sul tempo pieno, così come accade già da anni nel modello anglosassone. In questa proposta non c’è solo l’idea di un aumento dell’orario scolastico o di un aumento delle discipline, ma si evidenzia come la scuola debba essere il luogo dove ci si occupa della formazione del soggetto in tutte le sue sfaccettature, dunque non solo attraverso lezioni frontali e verifiche ma anche attraverso studio di gruppo, esperienze laboratoriali, discussioni mediate, studio assistito. Una scuola, in sostanza, a servizio dello studente. Una scuola che fa istruzione, ma anche educazione, che crea momenti di socializzazione delle conoscenze, che dedica tempo agli interrogativi dei ragazzi. Creando così dei programmi che seguano sia una linea ministeriale, sia gli interessi dei ragazzi. Ciò cosente di sviluppare progetti individuali e di gruppo, senza intaccare le ore di spiegazione tout cour e di verifica.

Scuola come opportunità per tutti

Rivendichiamo la piena applicazione delle leggi 517 del ‘77 e della legge 104 del ‘92, come piena applicazione del principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione. Inoltre i piani differenziati non possono essere utilizzati per tutti i tipi di disabili, vi sono infatti molti casi in cui il disabile può andare incontro al normale processo educativo con l’aiuto di personale qualificato che supporti nelle mansioni compromesse. Un tale intervento è volto ad eliminare ulteriori differenze e discriminazioni. È indispensabile che non venga tagliato il finanziamento per gli insegnanti di sotegno, e che tale figura sia sempre più valorizzata nel ruolo e nella formazione; con particolare riferimento al fatto che questo compito non è rivolto ad assistere il disabile nel tempo scuola ma a gestire la relazione disabile-classe nel contesto didattico. Un disabile in una classe non è un peso, ma un’opportunità per tutti: insegnanti e studenti.

Arrichire la scuola e non impoverirla

Secondo quanto prospettato dal Ministro attuale, si dovrebbe andare verso una diminuzione delle discipline nelle scuole secondarie, in particolare intaccando la seconda lingua nella media inferiore e le discipline meno professionalizzanti negli istituti di secondo grado. Riteniamo tale intervento profondamente dequalificante. È noto che l’età migliore per apprendere una lingua straniera è quella compresa tra i 6 e i 12 anni, pertanto si dovrebbe ampliare lo studio delle lingue straniere non solo nella secondaria di primo grado ma addirittura nella scuola di base. Sul secondo aspetto riteniamo che qualunque sia l’indirizzo di una scuola secondaria di secondo grado, debba essere dato ampio spazio a discipline di cultura generale, perché consentono al soggetto di costruirsi o prendere parte ad una visone del mondo, così da inserirsi creativamente e consapevolmente nel processo produttivo.

Per una scuola completa

Sull’accorpamento degli istituti secondari riteniamo utile ripensare gli indirizzi della scuola secondaria, ma non nel senso di diminuire gli istituti o accorpare gli indirizzi, quanto piuttosto rilanciare la formazione superiore riqualificando la scuola professionale, avvicinandola sempre più a quella tecnica che meglio di ogni altra sintetizza in sé professionalità e scienza. Una scuola dove, mentre si studia la tecnica per sviluppare un circuito elettrico o un modello aziendale, si da spazio anche alla logica e alla filosofia politica che sta dietro ogni applicazione. Una scuola dove i laboratori non sono applicazioni di mansioni, ma in cui si riscopre il perché di tali atti e strumenti. Dietro un macchinario c’è sempre una filosofia, una scienza che lo rende possibile. Conoscere questa teoria significa essere in grado di utilizzare strumenti e tecniche in modo consapevole e svilupparne di nuove. Lo stesso eurocentrismo diviene un limite per la comprensione delle discipline, oltre a non aiutare la valorizzazione delle differenze tra le varie culture. A tal fine sarebbe opportuno inserire nella scuola secondaria a fianaco dell’isegnamento della filosofia quello della storia della scienza, al fine di ridare quella visione d’insieme e di unità del sapere, chiave di volta per comprendere i processi complessi della cultura tecnologica contemporanea.

Scienza, democrazia e storia

L’inserimento della storia della scienza a fianco della filosofia, diviene propedeutico anche alla comprensione delle discipline scientifiche. In Italia paghiamo ancora lo scotto dell’impostazione idealista che relega a pura tecnica l’insegnamento delle discipline scentifiche denutrendole dei loro aspetti umani, sociali e storici. L’inseganamento del procedimento logico che stà dietro una formula o una tecnica è fondamentale per rispondere al perché di quell’insegamento. La logica come la scienza, per altro è fondamentale per la comprensione dei processi sociali molto di più di quello che comunemente si lascia trapelare, innanzi tutto perché sconfigge il dogmamtismo. Già la cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento aveva indicato queste strade: in primo luogo evitando gli schematismi e le riflessioni di terza, quarta e decima mano attraverso la lettura diretta delle opere e delle scoperte fatte dagli autori, in secondo luogo nell’unità del sapere (in particolare nella distinzione tra scientifico ed umanistico), la frammentazione disumanizza la conoscenza e la tramuta in verità rivelate e non frutto di un’ interazione tra soggetti e mondo; questi elementi risultano propedeutici all’impegno e alla partecipazione civile di ogni cittadino. Questo punto è fondamentale per costruire menti consapevoli che partecipino alla vita sociale di un paese, in sostanza siano alla base della democrazia.


Laicità e religiosità

In Italia è ancora un’emergenza la questione della laicità dello Stato. Questo fatto non solo è riscontrabile nei sostegni economici anticostituzionali attribuiti alle scuole confessionali private con la legge sulla parità, ma trova la sua espressione più forte nell’insegnamento della religione cattolica nella scuola. Riconoscendo come valore ogni tipo di religiosità presente nella vita di un soggetto, sia essa legata alla fede o alla cura di uno ‘spirito laico’, si dovrebbe tramutare tale insegnamento in insegnamento di storia delle religioni e della religiosità. Le religioni oggi sono terreno di scontro, ma potrebbero essere terreno d’incontro, riconoscendo in esse un’esigenza di tutta l’umanità. Uno stato laico non deve negare l’esistenza di tale esigenza, ma non può stabilire una gerarchia o peggio un’esclusività legata solo al numero di fedeli che ha una o un’altra fede in uno stato.

Una didattica nuova per una scuola creativa

Affermare, come fa il Ministro, della non efficacia dell’insegnamento scolastico nella scuola attribuendone la responsabilità ai docenti precari o fannulloni è pura demagogia. Sarebbe invece necessario ripensare i programmi scolastici a partire dal loro svolgimento; il sapere così come viene presentato è dogmatico e pertanto noioso agli occhi di un ragazzo, lo sforzo dovrebbe essere quello di sviluppare programmi partendo da temi e problemi che stanno alla base delle discipline o di applicazioni tecniche e professionali e del vivere nella società. Questo prevede anche una riscoperta dell’interdisciplinarietà presente, che in un’ impostazione per problemi e temi è molto più evidente; è necessario su questo individuare momenti di programmazione collegiale tra i vari ambiti disciplinari superando la programmazione per singole discipline e creando un programma steso unitariamente. È auspicabile, inoltre individuare momenti in cui i docenti compiono ricerche individuali e di gruppo facendo su di esse intervenire anche un momento valutativo; così come per l’insegnamento universitario non si può scindere la didattica dalla ricerca, parimenti per gli insegnanti di scuola secondaria è necessario costruire questo nesso; non si devono aumentare le ore di didattica in classe, piuttosto introdurre ore di studio e ricerca, retribuite e finalizzate alla didattica e non lasciare questi aspetti al volontarismo. Quest’ultimo elemento rimotiverebbe anche lo stesso insegnamento, valorizzando il ruolo dell’insegnate anche come ricercatore.

Rapporto educativo e cura del soggetto

La norma che prevede l’aumento del rapporto alunni-classe va ulteriormente a negare la cura del soggetto. Ogni classe non dovrebbe, a nostro avviso, avere più di 15 alunni per classe; la funzione scolastica non è quella di selezionare in un gruppo ma di condurre tutti in un percorso formativo che non lasci indietro nessuno. La cura del soggetto non può essere né sbilanciata verso lo spontaneismo assoluto né verso un indottrinamento delle conoscenze; il naturalismo e lo spontaneismo collocano il fanciullo fuori dalle sue condizioni materiali particolari. Un ragazzo quando si inserisce nel percorso educativo, nella scuola, ha già, in virtù delle immagini e delle impressioni acquisite durante i primi mesi di vita, i prerequisiti di un pensiero dogmatico; il fine pedagogico quindi deve essere caratterizzato dalla trasformazione di questi prerequisiti in pensiero creativo. È qui che si inserisce l’opera positiva dell’educatore, attraverso la trasformazione di quei prerequisiti in favore di un pensiero creativo, che altrimenti, se lasciati a se stessi, sfocerebbero necessariamente in un pensiero dogmatico funzionale al pensiero dominante, in quanto sedimentato nella società dai processi storici condizionati dal senso comune. Il tutto limita l’espressione del potenziale umano che può risolversi anche in un disagio psichico e sociale. I contenuti dogmatici, in particolare nei primi anni di scuola, servono ad evitare che il fanciullo rimanga legato agli istinti; in sostanza bisogna procedere da un “conformismo dinamico” per poi lasciare sempre più spazio all’espressione della personalità e all’autonomia del soggetto. È poi necessario fornire al fanciullo il patrimonio di conoscenze già acquisite dalla comunità, perchè senza passato non c’è futuro.


Obbligo scolastico e scuola unitaria

I provvedimenti del Ministro attuale sono volti a ricondurre ancora una volta l’obbligo scolastico a 14 anni, prevedendo per i più non il percorso scolastico, ma percorsi di formazione professionale per l’immediato inserimento nel mondo del lavoro. Questa è un impostazione non solo classista ma sbagliata anche dal punto di vista di un industriale che punta al profitto; infatti, che tipo di lavoro può essere svolto senza alcuna comprensione dei processi teorici e scientifici che vi stanno dietro? Per questo proponiamo che l’obbligo scolastico sia portato a 18 anni e che la specializzazione in indirizzi si sviluppi solo a partire dai 16 anni, così da dare a tutti i medesimi strumenti di comprensione della realtà, prima di indirizzarli in ambiti specifici. In sostanza ribadiamo la necessità di una scuola unica, unitaria fino a 16 anni, dove si da ampio spazio alla cultura generale, e dove la scienza acquisita si possa sperimentare in laboratorio, non tanto come avviamento al lavoro, ma in quanto momento di incontro tra teoria e prassi in cui si completa il processo di comprensione. Cosicchè la scelta da parte di un ragazzo verso scuole specializzate professionali o superiori avvenga solo dopo aver raggiunto un certo grado di maturità e capacità intellettuale, ed avere acquisito autonomia nell’orientamento e nell’iniziativa nelle attività teoriche e pratiche.

Formazione e ruolo dell’insegnante

Sugli insegnanti della secondaria si è già anticipato che questi siano anche ricercatori, così come avviene all’Università, pertanto è sbagliato pensare alla riduzione dell’organico effettuato tramite l’aumento delle ore di cattedra o l’aumento del numero di alunni per classe; bisogna invece prevedere ore di ricerca e di aggiornamento. La formazione dei medesimi non può essere affidata a corsi meramente disciplinari o peggio ancora al formalismo didattico; l’insegante è soprattutto un mediatore tra cultura ed educando, non può limitarsi ad esporre dottrine che il ragazzo deve apprendere. È necessario ripensare le scuole di specializzazione per l’insegnamento, ma senza chiuderle: esse devono rimanere posteriori ad un percorso di laurea privilegiando da una parte l’insegnamento della ricerca, a cui possono contribuire i docenti delle università, e dall’altra insegnando modelli didattici, utilizzando gli insegnanti già presenti nella scuola superiore a cui spetta anche il compito di far svolgere un tirocinio assistito. Ritornare al reclutamento tramite concorso è un errore, se poi tali concorsi saranno appannaggio delle singole scuole si finirà per creare, anche nella secondaria, un sistema clientelare e non di qualità.

Privatizzazione e libertà del sapere

Il Ministro sembra orientato, con l’introduzione del concetto di fondazione anche per la scuola, ad andare verso un sistema misto dove la scuola pubblica si tramuta in una enorme agenzia, in parte pubblica e in parte privata, fortemente connessa agli interessi dei finanziatori locali. Questo pone due ordini di problemi: da un lato quello dei vincoli alla libertà dell’insegnamento e della cultura, dall’altro finalizza l’apprendimento e l’insegnamento ad interessi particolari e locali. Quest’ultimo punto è particolamente negativo in una società globale e complessa; se si vuole lasciare piena autodeterminazione ai soggetti è necessario che l’insegnamento impartito sia il più ampio possibile e contempli il massimo delle possibilità, così da fornire strumenti che consentano mobilità in tutte le direzioni. Un insegamento particolare e finalizzato ad un'unica esigenza è sempre dogmatico e privo di criticità. L’Università ha sempre saputo rendere flessibile il proprio sapere e la propria ricerca, in virtù del fatto che non si è mai inserita nella logica aziendale. Un’Università dunque senza condizione, dove si possa decostruire ogni tipo di sapere, mettere cioè in discussione ogni concetto al di là di ogni condizionamento esterno. Solo così diventa possibile riprogettare la realtà, il sapere, la scienza oltre i pregiudizi e al di là delle posizioni assodate, ritrovando un’Università creativa di cui ha bisogno la società odierna.

Per un’Università di massa e di qualità

Un’analisi sull’Università non può che partire da un analisi del nuovo modello universitario introdotto dalla legge 341 del ’90 e dal Decreto 509 del ’99. In sostanza del modello del 3+2 e del sistema a crediti. Tale sistema ha prodotto a nostro avviso alcune devastanti conseguenze, in particolare in relazione all’automia didattica, l’autonomia gestionale e finanziaria, il sitema dei crediti e degli esami, il valore dei titoli di studio. Su questi punti pensiamo sia necessario riflettere e proporre un modello alternativo.
In generale riteniamo che oggi l’Università debba essere una sintesi tra il modello humboltiano e quello politecnico, rivolgendosi ad un ampia massa di cittadini; il suo compito deve restare quello di analizzare la società, in tutti i suoi aspetti, economico, sociali, educativi, tecnologici, etc. fuori da ogni interesse immediato, ma non per questo fuori dalla realtà. In sostanza una ‘cittadella della cultura’ che però non sia chiusa su se stessa ma aperta con le sue finestre su tutto il mondo e i suoi processi attuali.

L’autonomia universitaria

L’autonomia universitaria comprende due aspetti: quello didattico e quello finanziario. I due aspetti non possono essere trattati separatamente anche se toccano ambiti differenti. Il primo riguarda l’offerta formativa, cioè l’attivazione di corsi di laurea triennali e magistrali all’interno delle classi di riferimento, il secondo la gestione ed il reperimento delle risorse finanziare ordinarie e straordinarie.
L’autonomia didattica ha avuto come conseguenza il proliferare dei corsi di studio e la frammentazione degli insegnamenti, gettando nel più totale caos i percorsi universitari. Noi riteniamo che tale frammentazione produca due conseguenze inevitabili: da un lato l’impoverimento dei percorsi di studio, dall’altro la perdita del valore legale del titolo di studio stesso. La prima conseguenza è dovuta al fatto che lo spezzettamento dei corsi non consente la costruzione di una visione d’insieme delle discipline e quindi degli ambiti di ricerca, trasformando il sapere critico proprio dell’università in una serie di nozioni tecniche slegate tra loro che non servono a fare del laureato un soggetto consapevole, capace di mettere in discussione modelli socio-economici e politico-culturali per proporne di nuovi, funzione storicamente attribuita all’Università. La seconda conseguenza è dovuta al fatto che mancando un’omogeneità dei titoli rilasciati dalle università, non è più possibile riconoscere un valore specifico del titolo di studio su tutto il territorio nazionale; la conseguenza pratica più grande è l’impossibilità di tutelare il laureato sul piano professionale ed il suo successivo inquadramento nel mercato del lavoro, tutto questo a vantaggio della precarietà.
L’autonomia finanziaria e gestionale ha prodotto l’aziendalizzazione del sitema universitario, da cui sono emersi due aspetti: il progressivo disimpegno dello Stato nel finanziamento alla ricerca in favore di un autoreperimento di risorse dai privati, per altro non arrivato; la trasformazione della struttura gestionale volta a costruire un’Università dei manager dove le parole d’ordine sono strategia, gestione, competizione e cambiamento che sono andate ad amplificare il già grosso problema della governace. In questo quadro ciò che conta non è più la ricerca disenteressata della verità a guidare l’attivita di docenti e ricarcatori, ma la necessità di finalizzare ogni tipo di studio ed ogni tipo di progetto educativo al reperimento di risorse e potere accademico.
Noi proponiamo il ritiro dell’autonomia universitaria in favore di un’autonomia della ricerca e dell’insegnamento, che però sia coordinata, monitorata ed inserita in un progetto nazionale. Per questo è necessario ripristinare corsi di studio che rilascino i medesimi titoli, se pur nella differenziazione dei curricola. Chiediamo inoltre che i costi della ricerca e della didattica siano a pieno carico dello Stato sulla base delle reali necessità delle singole strutture e che dunque l’università torni ad essere priva di condizionamenti legati ai poteri accademici o dei privati. Questo è fondamentale per lo sviluppo della ricerca di base.

Il reclutamento di docenti e ricercatori

Il reclutamento dei professori è regolato dalla legge del 3 luglio 1998 numero 210 che segue il principio dell’ autonomia universitaria. Secondo questa legge, i criteri di valutazione di un aspirante docente sono decisi autonomamente dalle singole università; allo stesso modo i regolamenti e le procedure per la copertura dei posti sono stabiliti mediante trasferimento nella stessa sede universitaria.
Con le modifiche della legge 370 del 1999 i bandi per i posti di ricercatori, associati ed ordinari, vengono indicati dalle singole università, come pure i criteri per la composizione delle commissioni che dovranno esaminare i candidati. Con queste leggi viene legittimato e rafforzato il metodo clientelare e baronale dell’ università, facendolo passare come un aumento della responsabilità lasciato alle singole facoltà: in questo modo vincere un concorso non dipende tanto dalle capacità dei candidati, quanto dalla composizione delle commissioni.
Per un corretto reclutamento del corpo docente troviamo necessaria l’istituzione di commissioni composte da membri esterni alle facoltà, e che nei metodi di selezione vi sia una prova la cui valutazione sia fatta senza conoscere l’identità del candidato, come avviene in tutti concorsi pubblici (sia questa l’esposizione di un progetto di ricerca, sia un saggio o articolo non ancora pubblicato su di un tema) in modo da garantire la valutazione delle reali capacità del candidato. Queste commissioni esterne dovranno valutare su argomenti differenziati facoltà per facoltà.

Il ripensare gli esami fuori dal sistema crediti

Prima dell’attuale ordinamento universitario, allo studente era richiesta, per il conseguimento della laurea, una preparazione in molteplici ambiti disciplinari che complessivamente andavano a costituire il curriculum formativo. Ad oggi viene invece richiesto il raggiungimento di un somma di crediti.
Prima dell’entrata in vigore della 509 del ’99 vi erano nei corsi di studi un certo numero di esami obbligatori e una ampia gamma di discipline che potevano invece essere scelte dagli studenti dentro aree disciplinari stabilite dal Ministero. Questo permetteva sia una preparazione di base omogenea sia la costruzione di piani di studio sulla base degli interessi del singolo e degli indirizzi prescelti.
Attualmente il sistema universitario si basa, invece, sull’accumulo di crediti formativi; questo comporta che lo studente sia vincolato ad un piano di studio predefinito dai singoli consigli di facoltà, per cui a differenza del passato il titolo di studio non delinea più un percorso formativo chiaro, ma certifica solo una serie di esami che ogni singola struttura ha scelto di “fornire” agli studenti.
Un credito rappresenta una quantità di studio individuale e di didattica in classe pari a 25 ore, realisticamente tale carico corrisponde a non meno di 30 ore. Il lavoro di apprendimento è suddiviso in ore di lezione, esercitazioni e seminari (didattica assistita) e forme di studio individuale. Il rapporto tra queste due modalità però, varia da disciplina a disciplina, da insegnamento ad insegnamento e da persona a persona. Proprio per questo il carico di un esame viene, nella maggior parte dei casi, stabilito per convenzione, ciò non conduce certo a dati attendibili sul carico di lavoro dello studente. In questo modo il lavoro dello studente è valutato su base quantitativa, piuttosto che qualitativa, e come si è detto anche in modo poco rispondente alla realtà. Lo studente, quindi non è incentivato ad organizzare il percorso formativo sulla qualità dell’insegnamento, e della disciplina, ma soltanto sulla quantità di crediti che esso garantisce.
L’insignificanza contenutistica degli insegnamenti ridotti a somme di crediti (termine che non a caso viene preso a prestito dal lessico economico) forgia individui passivamente succubi della realtà e incapaci di confrontarsi con essa criticamente, schiavi della precarizzazione che caratterizza la nostra società. L’impoverimento della qualità didattica infatti determina l’impossibilità di acquisire conoscenze di spessore, di assimilare contenuti validi e di costruire un sapere non meramente nozionistico. I crediti didattici sono da un lato fattore di dequalificazione della didattica, dall’altro uno strumento di controllo e contenimento dei tempi e dei modi di studio e di vita dei lavoratori in formazione.
Noi proponiamo l’abolizione del sistema a crediti, almeno come criterio per la costruzione dei curricula, e il ritorno ad un modello dove è il contenuto dell’esame ad essere al centro e non il numero di ore supposte per studiarlo. Inoltre chiediamo che vengano riunificate le discipline evitando l’esistenza di migliaia di corsi universitari, tale provvedimento consentirebbe anche di ristabilire curricola a livello nazionale dove sono previsti esami obbligatori e a scelta. Ad oggi i crediti liberi non assolvono a questo compito, primo perché corrispondono al massimo a due esami, secondo perché questi sono scelti arbitrariamente mentre gli esami a scelta da noi ipotizzati sarebbero individuati dentro raggruppamenti disciplinari stabiliti dal Ministero.

No al 3+2, perché?

L’università pubblica non deve formare persone specializzate in un preciso e circoscritto settore, da immettere subito nel mondo del lavoro, ma deve dare gli strumenti affinché essi siano in grado di specializzarsi in seguito.
La formula del 3+2 impone la necessità di spendere immediatamente alcune conoscenze sul mercato del lavoro, questo genera un impoverimento generale del sistema; il modo stesso in cui sono organizzati i contenuti li rende finalizzati esclusivamente ad una immediata specializzazione e professionalizzazione delle competenze, cancellando l’unità del sapere e della scienza.
Non è necessario ristabilire i corsi di laurea con la formula quinquennale, è possibile prevedere anche tappe che consentono traguardi intermerdi, sia per la possibilità di una mobilità da parte dello studente (esempio: cambio indirizzo di studi, cambio di sede universitaria o di Paese), sia perché in caso di interruzione non si perda il lavorso svolto, tuttavia è indispensabile capovolgere l’attuale sistema, la specializzazione non può che giungere dopo.
Rispetto al problema dell’abbandono o del non conseguimento della laurea entro il tempo stabilito, l’università dovrebbe adoperarsi per superare le difficoltà che certi studenti possono incontrare durante il percorso. Questo si ottiene dando sostegno allo studente riguardo le problematicità didattiche e amministrative, agevolando in questo modo il regolare svolgimento del percorso di studi.

Dal diritto allo studio allo studio come valore produttivo

Il diritto allo studio all’Università non può continuare ad essere un elemosina elargita dallo Stato a chi ha scelto di studiare, ma per far ciò è necessario invertire i termini della questione.
È necessaria un’analisi che tenga conto delle esigenze materiali della società da una parte e degli studenti dall’altra, andando a fondo sul rapporto tra capitale e formazione universitaria. Ad oggi la ricchezza nel processo industriale non è data tanto dal tempo di lavoro e dalla sua qualità ma dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante tutto il tempo di lavoro, in particolare dallo stato di avanzamento generale della scienza e del progresso della tecnologia. In quest’ottica l’operaio non è più l’unico agente diretto ma si trova accanto al processo di produzione; la richezza è data dallo sfruttamento della produttività generale dell’uomo, della sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale, un insieme talvolta definito come general intellect. Dunque nella società attuale è anche il sapere a timbrare il cartellino. Ma ad oggi la contraddizione risiede nel fatto che mentre il nuovo sistema economico post industriale (per sua stessa ammissione) va costituendosi intorno alla conoscenza in generale, al sapere sociale come pilastro centrale per la produzione della ricchezza, lo stesso sistema continua a misurare la realtà attraverso il solo metro del lavoro diretto, quindi dell’occupazione-non occupazione. Nel contempo si trae valore dall’intelletto, dall’intelligenza collettiva, e non solo non la si riconosce ma non la si remunera neanche.
Questo ragionamento si fa ancora più forte rispetto ai soggetti in formazione dove tale riconoscimento è nullo, anzi a questi viene chiesto di contribuire economicamente tramite tasse dirette alla propria formazione.
Dunque secondo noi si avrà un vero diritto allo studio una volta che si sia riconosciuto tale valore e che anche allo studente universitario venga offerto o un salario, che non sarebbe una borsa di studio generalizzata ma un vero e proprio stipendio dovuto, o un insieme di servizi che contribuiscano completamente al suo sostentamento.